Avevo voglia di cucinare qualcosa di diverso. Non la solita pasta al pomodoro, non la solita carbonara, niente di elaborato. Solo qualcosa che avesse un’anima. E in quell’istante, quasi come un riflesso involontario del cuore, mi è venuto in mente lui: Diego. Diego Armando Maradona. E con lui, un piatto semplice e straordinario, che lo accompagnava nei giorni di Napoli: gli spaghetti con il pangrattato. Un piatto povero, ma ricco di storie, emozioni e memorie.
In un mondo dove spesso il gusto viene misurato in stelle Michelin e ingredienti esotici, c’è qualcosa di profondamente rivoluzionario in una manciata di pane raffermo, tostato e profumato d’aglio, versato su una pasta al dente. E Diego lo sapeva. Perché Maradona, anche a tavola, era come in campo: sceglieva la verità.
Chi l’ha conosciuto da vicino racconta che a Napoli, quando voleva sentirsi a casa – anche se era lontano dall’Argentina – chiedeva gli spaghetti con il pangrattato. Non aragoste, non caviale. Solo pane raffermo grattugiato, tostato nell’olio con uno spicchio d’aglio e, magari, un tocco di peperoncino. Bastava poco. Bastava il sapore dei vicoli. Bastava Napoli.
E in effetti questo piatto è nato proprio così: dall’ingegno delle mamme napoletane che, pur con poco in dispensa, riuscivano a mettere insieme qualcosa che scaldasse il cuore. Era “la pasta del giorno dopo”, la ricetta di chi non aveva nulla ma sapeva trasformarlo in tutto. E Diego, che veniva da Villa Fiorito, sapeva bene cosa significasse. Anche per questo se ne innamorò.
Perché Maradona non ha mai dimenticato da dove veniva. Lì, nei sobborghi poveri dell’Argentina, probabilmente sua madre Doña Tota gli preparava qualcosa di simile. Un piatto che aveva il sapore dell’infanzia, della lotta, della fame. Eppure, più di ogni altra cosa, aveva il sapore dell’amore.
A Napoli, quando Diego arrivò nel 1984, trovò un’altra madre, una città che lo adottò come figlio. E lui la ricambiò non solo con i gol e i dribbling impossibili, ma anche con gesti che parlavano un linguaggio intimo. Come quando, a cena da amici, chiedeva questo piatto umile. Diceva: “Mi ricorda casa”. E in quel “casa” c’erano tutte le sue battaglie, le sue malinconie, le sue vittorie e le sue cadute.
Rivederlo in cucina, seduto a tavola, con una forchettata di spaghetti tra le mani, era come rivederlo al San Paolo davanti a una punizione. Non servivano effetti speciali, solo cuore. E quei sapori poveri diventavano un inno alla dignità.
Perché è anche questo che ci ha insegnato Maradona: che non serve essere ricchi per sentirsi pieni. Che la grandezza sta nei gesti piccoli. Che il pane avanzato può diventare poesia. E che ogni tanto, nella vita, dobbiamo tornare a cucinare come cucinavano i nostri nonni, i nostri genitori, quelli che ci hanno insegnato che la cucina è memoria.
Ricordo un’intervista di un suo ex cuoco napoletano, che raccontava come Maradona si commuoveva quando gli veniva servito questo piatto. Lo guardava, sorrideva e diceva: “Questo è Napoli. Questo sono io”. E aveva ragione. Perché quel piatto, più di ogni altra cosa, lo rappresentava.
Era semplice, come il suo tocco quando bastava per superare sei uomini. Era ruvido, come i suoi occhi pieni di vita vissuta. Era profondo, come i suoi silenzi fuori dal campo. E soprattutto, era vero. Come lui.
Oggi, mentre quegli spaghetti cuocevano e il pangrattato tostato riempiva la cucina del suo profumo inconfondibile, ho chiuso gli occhi.
Ho pensato a Diego. A quella Napoli del 1987 che impazziva per uno scudetto. A quelle notti al San Paolo in cui lui sembrava venire da un altro pianeta. Ma poi, a tavola, era uno di noi. Con la forchetta pronta, gli occhi che brillavano e una fame che non era solo di cibo, ma di vita.
E allora mi sono seduto. Ho mangiato lentamente. E ho capito che sì, forse non ci sono più i numeri 10 come lui. Forse non ci saranno più calciatori capaci di amare un popolo come lui ha amato Napoli. Ma finché ci sarà una padella con un po’ d’olio e del pane vecchio da grattugiare, Diego vivrà. Nei piatti delle nostre case. Nei ricordi dei nostri pranzi domenicali. Nelle cucine di chi non ha molto, ma sa che con poco si può fare il miracolo.
Proprio come faceva lui.